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L’ho uccisa perché l’amavo

by Mattia Massaro
18/10/2019
in Libri, News

Qualche giorno fa ho letto il libro “L’ho uccisa perché l’amavo (Falso!)” di Loredana Lipperini e Michela Murgia edito da Idòla – Laterza. Durante la lettura continuava a rimbombarmi in testa quanto avevo già sentito, riguardo al “femminicidio”, in un audio libro intitolato “Le lezioni di Paolo Crepet”. La tesi sostenuta dallo psichiatra negava l’esistenza di una violenza di genere spostando il problema sulla violenza in sé e la tendenza da parte di alcune donne ad avere una relazione con individui aggressivi, ignorando o sottovalutando determinate avvisaglie portandole così al conseguente tragico epilogo. Per un periodo questa interpretazione mi convinse, in fondo (mi dicevo) perché una donna continua a stare con un uomo che la picchia? Perché, quando trova il coraggio di lasciarlo, alla fine cede alle sue richieste di incontro a cui poi segue l’orribile assassinio? Forse una parte di loro è stata “educata” alla violenza, magari con brutte esperienze in giovane età, ritrovandosi invischiate senza accorgersi in relazioni aventi gli stessi rapporti di forza (violenza) vissuti nell’infanzia. Può darsi che alcune siano attratte dall’ideale machista. Anche se una parte di me considerava favorevolmente questa tesi ve n’era un’altra che continuava a dirmi: “É troppo semplice” e l’essere umano non è fatto per le cose semplici. Ogni scelta che compiamo, anche quella apparentemente più assurda, ha una logica anche se non riusciamo ad individuarla e comprenderla. Siamo una amalgama di istinti uniti a cose che vediamo, sentiamo, mangiamo respiriamo, leggiamo, comprendiamo o rigettiamo.

La mia ricerca personale di sapere mi ha portato così al libro della Lipperini e della Murgia in cui ho potuto riscontrare come la tesi di Crepet sia molto simile ad una corrente di pensiero che le autrici definiscono come negazionista nei confronti del cosiddetto “femminicidio”. Si esplica in tre modi, il primo, rappresentato da coloro che rifiutano «nettamente l’idea che si tratti di morti diverse da tutte le altre morti e quindi nega la necessità di nominarle e affrontarle con metodi specifici», il secondo invece «interessa tutti quelli e quelle che ritengono che, sì, le morti delle donne siano un fenomeno effettivo e che la similitudine delle circostanze in cui si verificano sia tale da poter parlare di denominatore comune, ma questo denominatore comune non vada per nulla cercato nella cultura maschilista che assegna un valore funzionale alla vita delle donne» quanto invece alla «guerra ideologica aperta dal femminismo con le battaglie per i diritti e la parità sessuale», infine «la negazione che si serve dei numeri […] che mostra che il fenomeno è così trascurabile da non dover neanche esser preso in considerazione» salvo poi scoprire che «mentre gli omicidi in Italia sono calati del 57% circa, i delitti passionali sono cresciuti del 98% […] si ammazza di meno, ma le donne vengono ammazzate sempre di più». Perciò, secondo queste argomentazioni, nel migliore dei casi il fenomeno non esiste mentre nel peggiore è colpa del femminismo. Al di là dei numeri, sono proprio queste argomentazioni che mi hanno portato a riconsiderare quanto avevo già sentito in passato, vale a dire la miopia (voluta o meno) riguardo al denominatore comune esistente in questa tipologia di omicidio, ossia la volontà da parte del maschio di possedere la donna che diventa quindi oggetto (e non più soggetto) da controllare, rinchiudere e domare. Il corpo della propria compagna (secondo questi individui) non le appartiene più e deve sottostare alle regole impostole. Ed ecco che ritorna la domanda, ma perché allora non se ne vanno? Ed è qui che, a mio giudizio, si esplica un altro meccanismo di pensiero subdolo derivante dalla stessa matrice culturale maschilista: la tendenza a giustificare l’assassino e a colpevolizzare la vittima. Anche ammettendo per un istante che alcune donne possano essere incapaci di gestire i rapporti amorosi al punto di farsi picchiare e uccidere che bisogno c’è di additare la vittima? Non ha forse già pagato abbastanza con la propria morte? Da quando è diventato giusto stare dalla parte dei violenti? Viviamo una strana forma di individualismo annientante ogni forma di solidarietà ed intriso, come se non bastasse, di cultura patriarcale che giustifica sempre e comunque l’operato maschile. Non si spiegano altrimenti tutti i titoli di giornale e i servizi televisivi in cui l’uomo, anche se omicida, viene rappresentato quasi come una vittima evidenziando (e ostentando) la giustificazione che lo ha portato ad uccidere la propria compagna. Quasi a dire: “beh! In fondo te la sei cercata” o magari considerandola come un attenuante, una sorta di semi infermità mentale. Il carnefice così diventa vittima facendo passare in sordina il messaggio secondo cui le donne è giusto che stiano al loro posto, subendo in silenzio. Se la nostra cultura non fosse intrisa di patriarcato a mio giudizio non si permetterebbe mai il diffondersi di certi titoli/tesi. Infine, non posso fare a meno di notare una contraddizione. Storicamente nella società Occidentale alla figura maschile si è sempre associata la razionalità e alla donna, in quanto soggetto considerato per natura irrazionale, veniva negato il diritto di voto e al lavoro. In Italia, ad esempio, fino al 1963 venne negato alle donne l’accesso in magistratura. Da qui mi sorge spontanea una domanda, se il maschio è così razionale per natura perché commette omicidi passionali? Ma soprattutto perché le emozioni che storicamente sono sempre state usate per ghettizzare a livello sociale la donna ora vengono usate come attenuanti dell’omicidio?

Tags: discriminazionedisuguaglianzadonneeducazionelibrisessismoUmanismoviolenza sulle donne
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